In vino veritas: di vinicoltura, cercopitechi e post-verità

Come dovrebbe essere una buona sbronza? Mediamente la maggior parte risponderebbe qualcosa come allegra, non troppo pesante e senza nausea o mal di testa il mattino dopo.

Per migliaia di anni gli abitanti del Mediterraneo hanno cercato di portare a termine questa sacra missione secondo questi parametri attraverso il vino. Ma anche il concetto stesso di vino è sempre stato aperto all’interpretazione. Infatti differenti modi e tempi per fermentare acini d’uva hanno portato nella storia a risultati assai diversi. Gli antichi greci mischiavano il loro fortissimo vino con l’acqua. Secondo le antiche cronache di sbronze bere il vino schietto non diluito portava a degenerante follia demoniaca (antica definizione per “coma etilico”). In altre parti del mondo l’uva veniva invece mischiata con altre sostanze, oppure le uve di una specie venivano mischiate con quelle di un’altra. In provincia di Piacenza un qualche antico carismatico leader da taverna decise che bonarda e barbera bevuti da soli non erano vino. Lo era solo la loro miscela (circa 2/3–1/3), la quale per secoli nelle valli che dal pavese portano fino alla pianura piacentina venne denominata dal popolo, appunto, “vino”. Solo quando, secoli più tardi, le forze oscure della globalizzazione si fecero strada perfino nella refrattaria val Tidone la nota miscela dovette accettare la definizione molto post-hoc di “Gutturnio”.

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Istanti di Follia Demoniaca

Per ovviare alla grande varietà di miscugli definiti semplicemente come “vino” in diverse zone d’Italia e del mondo, alcuni governi, fra cui il nostro, nel Novecento iniziarono a dotarsi di un sistema di omologazione che dal nostro lato delle alpi è noto come “DOC”. Il DOC in buona sostanza non fa altro che fissare i parametri entro i quali qualcosa può essere definito come “vino”. Per parecchio tempo, però, controlli e obblighi sulla produzione vinicola erano rimasti leggeri, confidando nella buona fede dei produttori tradizionali. Ancora una volta però l’oscura globalizzazione e il luciferino cambiamento tecnologico ci misero lo zampino. Con l’allargarsi a dismisura del mercato del vino italiano sia in patria che fuori molto più gente decise di improvvisarsi produttore grazie anche alla diminuzione dei costi dovuta alle nuove tecnologie. Soprattutto la chimica, pensarono molti, sembrava permettere di ovviare anche ai costi per materie prime improvvisamente diventate secondarie.. tipo l’uva. Il metanolo sembrava infatti fare perfettamente il lavoro. Alcuni forse si ricordano il risultato di queste geniali trovate imprenditoriali. Una ondata di intossicazioni e avvelenamenti accompagnò la diffusione del nuovo vino a basso costo, costringendo le autorità a intervenire. Dall’alto si decise di stringere i parametri per ciò che poteva essere legalmente commercializzato come “vino” e di controllarne strettamente il rispetto. Di fatto, almeno per qualche tempo e almeno in Italia, si è chiusa definitivamente il dibattito su cosa è vino e su cosa non lo è (o su cosa è gutturnio, teroldego, verdicchio, montepulciano ecc. ecc. e cosa non lo è). Un processo totalmente top-down che ha fermato il proliferare di sostanze vendute come vino delineandone la definizione in modo arbitrario, ma in fin dei conti salutare per il consumatore.

Uno che ha letto il titolo si potrebbe giustamente chiedere a questo punto cosa c’entra il giornalismo con questa storia di vino e alcol. A parte, ovviamente, una certa estemporanea sovrapposizione che si intuisce sfogliando il blog di Giulietto Chiesa o un libro di Andrea Scanzi. In realtà c’è molto di più. Anzi, si potrebbe dire che il processo appena descritto per il vino è accaduto, uguale e contrario, al giornalismo. Con tanto di pesanti effetti collaterali.

Il grande fraintendimento nel dibattito corrente fra “verità” e “post-verità” sta proprio nell’assunzione che sia effettivamente esistito in passato un giornalismo totalmente devoto alla verità e che questo sia progressivamente scomparso con la venuta delle solite oscure e luciferine forze della globalizzazione e del cambiamento tecnologico (a.k.a. internet). È la posizione che si può riassumere nello slogan “Make Journalism Great Again” o nel più local “Si stava meglio quando si stava peggio”.

Un’altra visione, forse un po’ più obiettiva, sostiene invece che una volta diffondere informazione richiedeva infrastrutture molto più imponenti (rotative, antenne, satelliti) le quali potevano essere controllate solo da individui, entità private o governi in grado di permettersele. Questo non determinava necessariamente che questi mettessero il metanolo nell’etere. Magari alcuni mischiavano bonarda e barbera mentre altri preferivano il vino schietto diluito. Che tradotto vuol dire semplicemente che i filtri che usavano per dare significato ai fatti erano diversi senza per questo essere in cattiva fede. Riportavano notizie in buona fede, ma spiegandone origine e collegamenti secondo visioni della realtà differenti. Col tempo, però, il cambiamento tecnologico ha distrutto questo monopolio (o oligopolio). Prima sottraendo il controllo dei media ai soli governi creando le tv commerciali. Poi creando tv satellitari in grado di uscire dai confini nazionali e rompendo così la tradizionale associazione tra nazione e mezzo di informazione. Per arrivare infine all’oggi, in cui chiunque può immettere informazione nell’etere in qualunque parte del mondo attraverso blog, video, e radio digitali.

Ma cosa significa tutto questo? Che oggi c’è più metanolo nell’informazione? Probabilmente sì. Ma non significa ovviamente che il metanolo prima non ci fosse.

Per capire meglio di cosa si parla bisogna fare qualche passo indietro e fare come abbiamo fatto prima rispetto alla sbronza: chiederci in parole più semplici possibili cos’è il giornalismo e a cosa serve.

Prima di tutto la trasmissione di informazioni è lungi dall’essere solo una prerogativa umana. Quasi tutti gli animali terrestri emettono qualche tipo di suono o altri segnali per trasmettere informazioni ai membri della loro specie. La maggior parte della comunicazione per quasi tutte le famiglie animali riguarda due argomenti principali: pericolo e accoppiamento.

Per la comunicazione a fine di accoppiamento si è tradizionalmente agito attraverso canali “one-to-one” (telefoni, chat, siti d’incontri) mentre tradizionalmente i canali one-to-many or one-to-masses (tv, giornali, radio) sono stati più il terreno per la diffusione di comunicazione legata direttamente o indirettamente a possibili pericoli (con la cospicua eccezione di Silvio Berlusconi).

In natura molte specie emettono suoni che servono a indicare ai propri simili la presenza di un qualche pericolo mortale. I cercopitechi verdi, nostri parenti prossimi, hanno addirittura sviluppato un linguaggio basilare in grado di distinguere i vari pericoli (aquile, iene, leoni). Quando un cercopiteco dice “leone”, i membri del gruppo scappano il più velocemente possibile in più direzioni in modo da confondere il predatore. I cercopitechi verdi sono però una specie assai vicina alla nostra anche in altri ambiti. I ricercatori hanno infatti potuto osservare come in presenza di una banana potenzialmente contesa con altri membri del branco alcuni esemplari urlino “leone” senza che vi sia alcun leone nelle vicinanze ma solo per provocare la fuga generale e impadronirsi del frutto conteso. Possiamo dire che il cercopiteco verde, specie assai più antica della nostra, abbia inventato l’essenza della bufala e della post-verità assai prima che un qualunque homo sapiens tirasse a fregare un suo simile.

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“T’o giuro, er leone c’era”

Insomma, l’essenza del giornalismo si può restringere nella comunicazione di brutte notizie (omicidi, guerre, calamità naturali, l’ultimo film di Star Trek ecc.) oppure della presenza di malattie e altri pericoli (la scoperta di una nuova malattia, un particolare medicinale che causa l’asma, un libro di Alessandro Di Battista ecc.). Queste informazioni ci aiutano a capire cosa nel mondo attorno a noi può potenzialmente danneggiarci nel breve o nel lungo termine. La presenza di un monopolio per la trasmissione di queste informazioni può però portare numerose gravi distorsioni. Per esempio, se in cima alla collina di avvistamento dei leoni c’è posto per una sola scimmia ciò può permettere al monopolista disonesto di gridare “leone” anche quando il leone non c’è e fottersi la banana. La presenza di numerose fonti diverse è servita in passato prima di tutto per prevenire questa eventualità. La scimmia monopolista può per esempio essere costretta a far posto ad altri due o tre membri del branco sulla collina. Se uno grida “leone” invano mentre gli altri tacciono difficilmente la bugia può passare per vera. A meno che, ovviamente, non si mettano d’accordo. Questo è qualcosa che nella storia è accaduto sovente. Traslando la metafora delle scimmie sulle democrazie moderne, per ovviare a questo problema si è permesso in passato a quanti più gruppi di potere possibili di possedere il loro posto sulla collina. I posti erano però limitati, a causa delle risorse necessarie per stampare un giornale o fondare una televisione. Ciò ha determinato nel tempo la creazione di punti di vista diversi, ma tendenzialmente afferenti a una cultura di base molto simile, che non contestava più di tanto il sistema esistente. Nelle democrazie moderne più compiute — quindi non l’Italia — ciò ha significato un compromesso di “check and balances” tutto sommato funzionale che ha permesso a queste società di prosperare potendo attingere a informazioni che — per quanto semplificate e filtrate secondo una visione tutto sommato comune — avvertivano piuttosto efficientemente la comunità dei pericoli e delle loro cause e hanno permesso alle comunità occidentali di reagire correttamente di volta in volta diventando di gran lunga le più prospere. Per esempio, mentre alcune società reagivano al pericolo di una grave siccità spiegando ai propri membri che tutto questo accadeva perché gli dèi erano arrabbiati e che per calmarli bisognava danzare intorno al fuoco, altre, pur concedendo che la disgrazia poteva essere dovuta all’incazzatura di qualche dio, decidevano che comunque era meglio scavare un canale dal fiume più vicino e irrigare il campo. In tal modo l’anno successivo la comunità avrebbe potuto affrontare l’incazzatura del dio con più relax. Molto spesso infatti una informazione efficiente non è solo quella che grida “leone” quando un leone c’è veramente, ma anche quella che ti fornisce una causa-effetto realistica del pericolo. Da dove arriva il leone? Perché i leoni passano sempre di qua? Non è meglio cercare banani fuori dai loro territori? E via così.

L’arrivo delle nuove tecnologie ha determinato la fine pressoché totale di quel monopolio. Per molto tempo abbiamo creduto che l’arrivo di internet avesse creato posto per tutti quanti per stare sulla collina e gridare “leone” quando è necessario neutralizzando definitivamente singoli o gruppi intenzionati a usare il loro privilegiato accesso all’informazione per fottersi la banana.

Ma avevamo tutti fatto male i conti. Perché l’effetto della democratizzazione dei mezzi di comunicazione finora non ha determinato la creazione di un posto per ciascuno in cima la collina. Ha determinato la demolizione della collina.

Perché la scimmia di guardia non gridi leone invano non basta infatti che essa non sia intenzionata a fottere la banana alla comunità. Perché non gridi leone invano è necessario prima di tutto che abbia un’idea precisa di cosa sia un leone. Anche la scimmia più ben intenzionata fa comunque perdere un prezioso pasto al branco denunciando un pericolo inesistente semplicemente perché non sa di cosa sta parlando.

Ovviamente questo non significa affatto che sia scomparso chi sa cosa sia un leone (o una iena, o un serpente). Semplicemente la diffusione capillare dei mezzi di informazione ha comportato che la sua opinione valga grosso modo quanto quella di chi vede una lepre e pensa “leone” o quella di chi vede Andrea Scanzi e pensa “giornalista”. Non esiste più una collina che rendeva coloro in cima ad essa titolati a dire se un pericolo si stava avvicinando. Oggi siamo tutti a valle, con una magra banana da dividerci, e intorno a noi un sacco di gente che vede pericoli e salvezze da ogni parte, spesso in modo opposto l’uno dall’altro. Con il risultato che nessuno capisce se il prossimo voglia avvertirlo di un pericolo reale, mangiargli la banana, oppure semplicemente gridare a caso di pericoli più o meno assurdi per sentirsi importante ed emergere dal branco. Un caos e uno stallo comunicativo che ha il risultato di rendere tutto estremamente più semplice per il leone.

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L’invenzione della post-verità

In mezzo a questa confusione la reazione di molti è quella di affidarsi a una qualche figura salvifica che ci salvi tutti. Un Putin o un Duce che annullino tutte le differenze e si prendano la responsabilità e il monopolio di dire a tutti se sto cazzo di leone c’è o meno. La cosa più curiosa — e anche inquietante — di tutti coloro che oggi esaltano Russia Today, Sputnik, l’Antidiplomatico o il Sacro Blog di Beppe di fronte alla tradizionale stampa occidentale è che, visto che temono che un numero limitato di scimmie in cima alla collina si mettano d’accordo per fregarli, la soluzione sia sostanzialmente metterne una sola.

Ed ecco che la metafora dell’inizio ritorna, uguale e contraria per il giornalismo. Mentre per il vino dal caos iniziale è emersa una classificazione imposta dall’alto che ha ristretto i parametri per decidere cosa sia effettivamente vino, per il giornalismo dall’iniziale imposizione dall’alto che in modo più o meno aperto definiva cos’erano i mezzi legittimi di informazione e cosa non lo erano si è passati a una situazione in cui definire tale differenza è diventato impossibile. Da una parte si è rotto una monopolio (o un oligopolio) potenzialmente assai pericoloso, mentre dall’altra ancora non si è saputa coagulare una alternativa allo stesso tempo efficiente e più democratica. Le direzioni che sembrano aprirsi sono sostanzialmente due. Da una parte in molte persone confuse (e, giustamente, spaventate) cresce la voglia fuggire da questa situazione rifugiandosi nell’informazione monolitica. Il fascino per il sistema russo in cui tutto dalla televisione a internet è saldamente nelle mani del regime è esemplificativo di questa tendenza. Questa soluzione rappresenta un vantaggio non solo perché limita il “baccano” dell’estrema pluralità ma perché imponendo un solo filtro della realtà la rende accettabile anche quando è fattualmente peggiore. In un recente articolo del New York Times Sergei Guriev ha spiegato come anche l’estrema crisi economica attraversata dalla società russa negli ultimi anni — a cui confronto quella europea o americana sono robetta da ragazzini viziati — non si sia tradotta come da noi in una perdita di fiducia nella leadership. Controllando saldamente l’informazione il Cremlino ha passato il messaggio che tutto questo è il sacrificio necessario per far tornare la Russia “Great Again” e che le difficoltà economiche sono dovute alla vendetta dei nemici della nazione e non a vent’anni di sviluppo economico sbilanciato e corrotto basato sul solo oil&gas che ha favorito solo pochi oligarchi. Ovviamente a nessuno è stato chiesto se preferivano la grandezza della nazione o avere una casa o un lavoro. Ma poco conta, perché se controlli la narrazione nazionale puoi controllare perfino le priorità delle persone. E “Russia Great Again” è oggi molto più importante per il russo medio di avere un lavoro o un futuro personale. Una cosa simile accade negli anni dell’autarchia fascista, in cui il regime riuscì a fare del regime di sanzioni a cui era sottoposto una potente arma di propaganda. L’effetto “Rally around the Flag” è notoriamente uno dei più potenti strumenti concessi dal controllo monopolistico dell’informazione. Decidere di seguire questa opzione significa decidere la fine dell’individualismo occidentale per potersi finalmente rifugiare in una narrazione organica e semplice del mondo dove ognuno è contento con quello che la società gli spiega essere ciò che lo rende contento. Un sistema in cui esiste solo il barbera e dove a tutti viene spiegato che il barbera è ciò che c’è di meglio. O, ancora meglio, tutto ciò che c’è e basta.

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“Leone!”

La seconda opzione, che al momento sembra assai minoritaria, è riuscire a coagulare intorno a questa caos un set minimo di regole secondo le quali qualcosa può essere definito legittimamente “giornalismo professionale” e distinto da bufale, balle, imprecisioni o, per intenderci, dal “Fatto Quotidiano”. Quando a suo tempo per i vini venne creato il DOC si decise di includere quanta più varietà possibile, posto che ogni tipologia rispettasse dei criteri minimi di produzione. Ma se la metafora del vino-giornalismo funziona fino a qua è ancora da vedere se l’informazione possa essere davvero ridefinita in modo condiviso come fu per il vino. Quel che è certo è ciò non può accadere con un processo top-down, non con le istituzioni delegittimate di oggi, ma non può nemmeno avvenire senza una istituzione che sia in grado di giudicare quando questi ipotetici criteri sono presenti o meno. È certamente una via assai più complessa e che pone gli interrogativi più difficili. Ma è anche quella che più si avvicina a un’idea di libertà di pensiero e di tolleranza reciproca che ci permetta comunque di convivere nella stessa società senza necessariamente vedere, come accade oggi, in qualcuno che la pensa diversamente un farabutto o, peggio, un nemico.

Come disse Ben Parker, zio dell’Uomo Ragno, al nipote.. “Ricorda sempre, da grande potere deriva grande responsabilità”. Internet ha concesso agli esseri umani dei superpoteri prima inimmaginabili. Con cui possiamo autodistruggerci in nuovi autoritarismi, oppure che possiamo usare per migliorare noi stessi e la nostra capacità di convivere nella diversità.

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