Due cose (non ovvie) da tenere d’occhio #4 – Commercio amaro

Chip e buoi dei paesi tuoi

Cosa sta succedendo: Il mondo sta cambiando. Facile da dire, meno da dimostrare. Ma se è una dimostrazione quella che cercate basta aguzzare la vista e concentrarsi su qualcosa di molto piccolo e allo stesso tempo estremamente fondamentale per le nostre moderne vite quotidiane: il chip (o, per i più affezionati per la nostra lingua moribonda, il “microprocessore” o “semiconduttore”). Un’altra parola inglese è necessaria per capire come questo piccolo oggetto è diventato un sintomo dei cambiamenti del mondo: decoupling (che un po’ sommariamente può essere tradotto in “separazione”). La separazione di cui si parla in questi mesi travagliati è quella tra aree del mondo caratterizzate da diverse forme di governo e “affinità” ideologiche. In particolare, alla ribalta in questo momento è la separazione tra il “mondo democratico” occidentale e quello autoritario capitanato da Cina e Russia (esattamente in quest’ordine). Certamente di questa “separazione” sempre più netta ciò che salta all’occhio sono le tensioni internazionali.

Ma a dire la verità c’è qualcosa di molto più profondo in ballo, in grado di condizionare significativamente le nostre vite quotidiane nel futuro molto più degli sviluppi politici (bomba nucleare a parte). Anche quest’ultimo elemento chiave è normalmente definito con un inglesismo: supply chain (sempre per i nostalgici dell’italiano: “catene di produzione”).

L’onda di globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi 30 anni ha infatti comportato una estrema estensione delle catene di produzione mondiali. Molti degli oggetti che usiamo comunemente (dai telefoni, ai frullatori, al computer che sto utilizzando per scrivere questo post, fino a cruciali tecnologie militari) sono l’insieme di componenti prodotti separatamente in posti diversi del mondo, spesso molto lontani tra loro, e poi assemblati in un posto terzo. (da notare, inoltre, come altrettanto spesso nessuno di questi posti corrisponda a quello dove il prodotto è stato progettato). Il coagularsi di queste catene di produzione estese su più nazioni e continenti è stato reso possibile da diversi fattori, in primo luogo il basso costo della manodopera nei paesi asiatici (Cina in primis) e, in secondo luogo, una relativa e prolungata calma geopolitica.

La manodopera a basso costo ha infatti reso conveniente spostare altrove fasi di produzione meno sofisticate (ma, col tempo, anche buona parte di quelle sofisticate) che nei paesi occidentali avevano costi ben più alti. La “calma geopolitica” ha invece permesso di armonizzare questi scambi e questi investimenti attraverso istituzioni nazionali e multilaterali operanti secondo protocolli simili e armonizzati, e soprattutto prive di pesanti influenze politiche che ne potessero mettere in dubbio l’affidabilità per i partner esterni.

Entrambi questi fattori chiave, però, stanno cambiando. Mentre delle crescenti tensioni internazionali si occupano ormai i telegiornali quotidianamente, della grande inversione demografica che sta prendendo piede in gran parte del mondo, e che sta mettendo in dubbio la convenienza di produrre così lontano dall’Europa, ci occuperemo dettagliatamente in un prossimo post. Quello che qui ci preme sottolineare è che i primi segni concreti di decoupling stanno prendendo ormai piede nella pratica oltre che nelle previsioni astratte degli esperti. E stanno prendendo piede a cominciare da quelle produzioni considerate più strategiche, come appunto quelle dei microchip.

Cina, Stati Uniti, ed UE hanno tutti intrapreso ambiziosi programmi per riportare “a casa” le produzioni di questi componenti, accorciandone le supply chain e cercando, di fatto, di tagliare fuori i potenziali rivali dalle proprie tecnologie. Tutti e tre questi attori hanno infatti approvato investimenti pubblici in miliardi di dollari per sovvenzionare la creazione di fabbriche e centri di sviluppo, andando quindi a duplicare diverse volte catene di produzioni finora unificate ed estese su tutto il globo. Washington, inoltre, ha annunciato il blocco delle esportazioni dei chip più sofisticati made in USA verso la Cina.

Nell’immediato, questi cambiamenti strutturali del mercato calati dall’alto stanno avendo conseguenze contradditorie: ci sono ovviamente i risvolti positivi per le tasche delle aziende interessate, e anche per la moltiplicazione di posti di lavoro, un tempo esportati altrove, nelle economie occidentali. L’effetto a breve termine di queste iniziative è però anche quello di creare una iper-produzione rispetto alla domanda effettiva di chip, di fatto saturando il mercato di prodotti di cui al momento ben pochi hanno bisogno, con effetti disastrosi sui prezzi. Insomma, tutti vogliono essere sicuri di poter produrre questi beni cruciali a dispetto di qualunque tensione internazionale, ma con l’effetto di andare a creare una capacità produttiva complessiva ben superiore alla domanda.

Perché è importante: quello del mercato del chip potrebbe essere solo l’inizio. È infatti normale aspettarsi che il decoupling globale inizi dai beni considerati più strategici, per poi estendersi man mano anche a produzioni più banali come auto, elettrodomestici e perfino il l’agroalimentare (“sovranità alimentare”.. dove l’avete sentito di recente?). L’accorciamento delle supply chain dopo decenni di espansione avrà certamente effetti enormi. Se da una parte può potenzialmente riportare verso Occidente, Italia compresa, molti posti di lavoro precedentemente “esportati” con le delocalizzazioni, dall’altra nuove anomalie e inefficienze del mercato affioreranno presto, a cominciare da un cospicuo e costante aumento dell’inflazione dopo oltre un decennio di tassi piatti. Il mondo sta cambiando. E il cambiamento più cruciale sta affiorando nel modo, e nel luogo, in cui i beni per noi fondamentali saranno prodotti. Se molti di noi sono cresciuti pensando che la logica del mercato fosse ormai la forza dominante e inarrestabile del mondo, potremmo presto scoprire quanto ci siamo sbagliati.

Amici amici e poi ti rubano la fabbrica

Cosa sta succedendo. La guerra in Ucraina e la politica di sanzioni ha confermato una realtà che era ormai più che assodata: le relazioni economiche sono sempre più al servizio della sicurezza nazionale e degli obiettivi geopolitici degli Stati. Ma lo strumento economico non é solo utilizzato dagli Stati Uniti e gli alleati di Washington. Il Covid, ad esempio, ha accentuato i timori di affidarsi alla Cina per la produzione di prodotti strategici e sanitari considerati critici. Gli Stati Uniti e, in misura minore, l’Europa hanno teorizzato vari approcci per rispondere a queste vulnerabilità percepite, tra cui il reshoring o il nearshoring nel tentativo di invertire le conseguenze dell’offshoring che ha contribuito a rendere la Cina una potenza produttiva e commerciale globale. L’ultima moda-sharing é però un concetto avanzato dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen, la quale ha coniato il termine friendshoring per descrivere gli sforzi per riconfigurare le catene di approvvigionamento globali in modo che i nodi produttivi chiave vengano trasferiti in Paesi politicamente amichevoli e affidabili. È notevole che Yellen abbia approfittato di una visita in Corea del Sud per invocare il friendshoring delle catene di approvvigionamento nei Paesi partner, sopratutto collegandolo al fine di mitigare l’impennata dell’inflazione e la carenza di beni fondamentali.

Per Yellen, i Paesi alleati degli States potrebbero utilizzare il friendshoring per costruire reti limitate per il commercio di beni essenziali o complementari, aggirando i rischi presentati dall’affidarsi a Paesi non amici. Non a caso, tutto ciò avviene in un momento in cui la Cina ha abbracciato la cosiddetta strategia di doppia circolazione, articolata nel quattordicesimo piano quinquennale. Il suo fulcro è il programma Made in China 2025, che mira a ridurre la dipendenza della Cina dagli altri Paesi cercando di aumentare la loro dipendenza dall’economia cinese. Il presidente Xi Jinping, nel suo discorso di apertura del ventesimo congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC), ha ribadito che la Cina si impegnerà per l’autosufficienza in campo scientifico e tecnologico.

Perché è importante. I tentativi di disaccoppiare o ridurre le relazioni economiche e tecnologiche tra l’Occidente e la Cina hanno rappresentato una sfida difficile per i responsabili politici e per i dirigenti aziendali. Fondamentalmente, la Cina occupa una posizione cruciale nelle catene di approvvigionamento globali: è il primo produttore mondiale, anche di beni ad alta tecnologia; rappresenta il 18% del prodotto interno lordo (PIL) globale e il 15% del commercio mondiale; è tra i primi partner commerciali e di investimento della maggior parte dei Paesi del pianeta. Non è quindi un compito facile distogliere le catene di fornitura globali dalla Cina.

Detto questo, molte aziende puntano effettivamente a migliorare la propria la capacità di resistere agli shock politici e di cambiare rotta di fronte alle interruzioni di forniture, accettando che ciò avvenga a costo di una minore efficienza. Molte aziende guardano ai Paesi del Sud-Est asiatico, i quali tuttavia non vorranno adottare politiche che permettano l’accesso esclusivo o privilegiato alle aziende di un certo Paese solo per la relazione strategica che intercorre tra i due. In un mondo che abbonda di rivalità, é probabile che molti cercheranno di essere amici di tutti.

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IMMAGINE GENERATA DA INTELLIGENZA ARTIFICIALE DALL-E 2 DI OPEN AI DIGITANDO “The production of computer chips is coming home”

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