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Economia

Il mondo oltre lo schermo: serie TV e relazioni internazionali

 

Questo articolo è uscito in versione originale sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) il 4 febbraio 2019

Quando si parla di relazioni internazionali si corre spesso il rischio che alcuni concetti rimangano astratti, difficili da comprendere in termini concreti e reali. Quali sono gli effetti sul mondo in cui viviamo di una visione neorealista delle relazioni internazionali? Quali quelli di una visione costruttivista? E come si riflettono sulle vite quotidiane delle persone grandi temi come i riequilibri geoeconomici e geopolitici? Per ricercatori che si occupano quotidianamente di queste questioni è spesso molto difficile veicolare concetti come questi in modo che le loro ricadute siano comprensibili al grande pubblico. In ISPI abbiamo così pensato di provare a spiegare alcuni temi che affrontiamo ogni giorno nelle nostre analisi anche attraverso l’uso di strumenti “non convenzionali”, ma sicuramente più accessibili. Inauguriamo oggi una serie di articoli in cui proviamo ad analizzare come alcune serie televisive moderne più o meno consapevolmente (di solito meno) affrontano temi chiave delle relazioni internazionali, spesso attraverso punti di vista originali e concreti difficilmente riproducibili nelle nostre normali analisi.

Abbiamo scelto le serie televisive per due motivi. Il primo è che sono più popolari e universalmente diffuse di altri medium come film e libri (i secondi comunque imprescindibili per un vero approfondimento). Il secondo è che negli ultimi vent’anni il loro format ha subito una evoluzione tanto repentina quanto profonda, passando da semplici strumenti di intrattenimento popolare – non dissimili da rotocalchi e programmi di cucina – a un medium in cui grandi attori e registi fanno oggi la fila per cimentarsi in performance dalla grande complessità cinematografica e narrativa. Sembrano infatti passati secoli dalle puntate tutte uguali (ma per una certa generazione tutte egualmente bellissime) di A-Team o MacGyver. Oggi le serie hanno invece plot sofisticati che si dipanano per intere stagioni, cast d’eccezione e un costo al minuto (uno dei principali indicatori di qualità di una produzione cinematografica o televisiva) che sfiora quello delle grandi produzioni di Hollywood. Ciò rende possibile ai loro autori uno sviluppo dei personaggi simile, se non superiore, a quello dei migliori film, e la scrittura di trame in grado di affrontare anche i temi più complessi della modernità.

Nell’analizzarle abbiamo però ritenuto di darci alcune regole per evitare distorsioni di giudizio o di “prendere troppo sul serio” alcune delle situazioni riprodotte da quelli che restano comunque prima di tutto strumenti di intrattenimento: primo, abbiamo cercato di contestualizzare sempre la produzione. Ogni show veicola, più o meno consapevolmente, il punto di vista di un numero limitato delle parti coinvolte in una data questione. Il punto di vista di altre parti (di solito i personaggi negativi) è invece spesso arbitrariamente trascurato. In secondo luogo, abbiamo ritenuto importante tenere sempre a mente che abbiamo prima di tutto a che fare con un prodotto per l’intrattenimento: il bisogno di rendere una trama avvincente è spesso molto più primario rispetto al livello di realismo. Infine, è ovvio che, per quanto le serie spesso forniscano spunti e punti di vista originali, l’approfondimento è efficace solo se accompagnato all’uso di altri strumenti, tra cui libri e articoli specializzati. Nel proporre le nostre interpretazioni, non abbiamo naturalmente la pretesa di fornire un’esegesi completa e complessiva delle singole serie: per ciascuna di esse, abbiamo invece voluto adottare una chiave di lettura specifica, utile a contestualizzarle in una riflessione sul loro rapporto con le relazioni internazionali.

La selezione delle serie analizzate è avvenuta, per ora, privilegiando quegli show che vanno in onda in Italia su piattaforme facilmente accessibili come Netflix, Sky o Amazon. Non escludiamo però di allargare la gamma anche a serie più “di nicchia”, posto che siano in qualche modo accessibili al pubblico italiano.

Nei prossimi paragrafi abbiamo deciso di iniziare in grande stile parlando di come la serie di più grande successo dell’ultima decade, Game of Thrones (in italiano “Il Trono di Spade”), abbia generato notevoli dibattiti tra i sostenitori delle due principali scuole teoriche delle relazioni internazionali: neorealismo e costruttivismo. Affronteremo poi il tema del conflitto di potere, economia e spie tra Cina e Stati Uniti nel Pacifico attraverso il punto di vista fornito da due serie australiane: Secret City e Pine Gap. Chiuderemo infine questo primo articolo su serie e relazioni internazionali con l’analisi del tema della radicalizzazione così come è affrontato in uno degli show più “nazionalpopolari” statunitensi: Tom Clancy’s Jack Ryan.

Game of Thrones tra neorealismo e costruttivismo

Come molti (ma mai abbastanza) sanno, questa serie ormai mitologica, la cui ultima stagione andrà in onda nell’aprile di quest’anno, è tratta dalla collana di romanzi di George R.R. Martin “A Song of Ice and Fire” (in italiano tradotta in “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco”). In più interviste Martin ha spiegato come gran parte della trama nasca dalla sua passione per la storia. Il plot originale è ispirato infatti dalle sue letture sulla Guerra delle Due Rose, che nella Gran Bretagna del Quattrocento oppose due grandi casate nobiliari per la conquista del trono: Lancaster e York, divenute nel suo racconto Lannister e Stark. Il fatto che molte dinamiche della trama siano ispirate da eventi e popolazioni storiche – i Dothraki sono un misto fra indiani d’America e nomadi mongoli, mentre il regno di Dorne sarebbe ispirato all’Andalusia medievale – rende l’intero racconto più realistico anche dal punto dei giochi di potere fra stati e potentati.

La grande popolarità dello show ha quindi immediatamente attirato anche dotte disquisizioni di scienziati politici che si sono accapigliati per stabilire a quale scuola di relazioni internazionali Martin si rifà – più o meno consapevolmente – nel dipanare la trama. Molti hanno insistito che le azioni spietate e i cinici voltafaccia che lo show inanella sono il frutto di personaggi che calcolano le proprie azioni solo nei termini del potere relativo che ne deriverebbe: una dinamica tipica della scuola realista delle relazioni internazionali (un paio di esempi qui e qui). A questa visione si sono però immediatamente opposti i sostenitori di altre scuole in ascesa in questi anni come quella costruttivista: le norme, che non sono altro che costrutti sociali, sono ciò che regola, influenza e limita i calcoli dei personaggi (un esempio qui). Anche il fatto che queste vengano spesso tradite dimostra come chi le infrange ne tenga conto e le utilizzi per ingannare i propri avversari. Curiosamente, uno dei passi del libro più significativi per questo tema viene usato da entrambe le parti per sostenere la propria posizione: “In una stanza siedono tre grandi uomini: un re, un sacerdote e un ricco col suo oro. In mezzo a loro sta in piedi un uomo con la spada, di umili origini e privo di una mente acuta. Ognuno dei tre gli chiede di uccidere gli altri due. ‘Fallo!”, dice il re, ‘io sono il tuo legittimo signore!’. ‘Fallo!’, dice il sacerdote, “te lo comando nel nome degli Dei!’. ‘Fallo!’, dice il ricco, ‘e tutto quest’oro sarà tuo!’. Quindi? Chi vive o muore? Lo decide l’uomo con la spada” (libera traduzione dalla versione inglese).

Al di là dei dettagli del dibattito, comunque utile per capire come vengono interpretate oggi le relazioni internazionali da chi le studia, lo show ha indubbiamente il merito di dare un quadro sofisticato, spesso spietato ma assai realistico, del potere e delle sue dinamiche a miliardi di spettatori.

L’Australia schiacciata tra i due giganti: il conflitto tra America e Cina visto da Canberra

Il fatto che entrambe le serie Netflix prodotte in Australia siano spy-story che trattano la continua sfida di potere fra Cina e Stati Uniti nella politica australiana la dice lunga come questo tema sia ben presente, in modo a tratti quasi ossessivo, nella coscienza del paese. L’Australia di oggi è infatti l’esempio più chiaro di come la dimensione economica di un paese possa andare in direzione diametralmente opposta dalla sua dimensione politico-culturale. Oltre il 60 percento del commercio estero del Paese è infatti ormai con la Cina, fondamentale soprattutto per l’acquisto delle materie prime di cui l’Australia è ricca. Rallentamenti nell’economia cinese o, anche peggio, potenziali provvedimenti punitivi introdotti da Pechino in risposta all’intensificarsi delle tensioni con l’Occidente avrebbero effetti disastrosi sull’economia australiana. Allo stesso tempo, Canberra è da sempre politicamente (ma non geograficamente) collocata nell’emisfero occidentale. Ex colonia britannica – fatto che ne caratterizza molto anche la politica interna – è profondamente legata agli USA che fin dalla Seconda Guerra Mondiale l’hanno utilizzata come avamposto nel Pacifico.

Una posizione che oggi si traduce con una collaborazione fra servizi segreti molto intensa, tema che fa da sfondo a entrambi gli show. Pine Gap è infatti uno dei centri di ascolto che la National Security Agency (NSA) americana utilizza per intercettare le comunicazioni in Asia orientale. Il centro – che esiste davvero – è gestito da team misti americano-australiani. La trama della serie omonima parte proprio da qui: dalla misteriosa infiltrazione di cui un operatore della base si accorge e dai sospetti di doppiogioco a favore dei cinesi.

Diversa trama ma identica tematica animano anche l’altro show: Secret City. Indagando su una misteriosa serie di omicidi avvenuti nella capitale australiana, una giornalista d’assalto svela il complotto di spionaggio e controspionaggio fra cinesi, americani, e politici australiani corrotti.

Ciò che emerge da entrambe le serie non è solo il senso di rischio economico e politico che l’Australia percepisce di correre a causa della sua peculiare posizione. C’è anche tutto il dilemma di una società che si sente profondamente parte di uno schieramento geopolitico e culturale pur sapendo, allo stesso tempo, che i suoi interessi economici la potrebbero portare prima o poi a tradirlo. Inoltre, sia Pine Gap che Secret City offrono l’opportunità a uno spettatore europeo di apprezzare le profonde differenze di percezione tra le due parti del globo. Mentre da noi risuonano ancora echi di Guerra Fredda con il ritorno russo, le instabilità mediorientali e le difficoltà occidentali, niente di tutto ciò ha la minima importanza dall’altro lato del mondo, dove oggi si gioca quella che è forse la vera grande sfida geopolitica dei prossimi decenni: quella fra Cina e Stati Uniti.

La radicalizzazione vista dall’America 18 anni dopo l’11 Settembre: il caso di Jack Ryan

Chiudiamo questa primo pezzo con una serie un po’ più leggera delle altre tre ma non per questo priva di risvolti interessanti. Tom Clancy’s Jack Ryan narra le avventure dell’ex marine diventato analista “d’azione” della CIA Jack Ryan, già protagonista di numerose opere del popolare romanziere americano Tom Clancy, noto soprattutto per racconti a sfondo militare. I suoi libri hanno ispirato già in passato trasposizioni cinematografiche di grande successo come “Caccia a Ottobre Rosso”, “Sotto il Segno del Pericolo” e “Giochi di Potere”. Forse il formato serie televisiva non rimarrà nel mito come Sean Connery nei panni del comandante Marko Ramius, ma la buona interpretazione di John Krasinski nei panni di Ryan non fa rimpiangere incarnazioni ben più prestigiose come quelle di Alec Baldwin o Harrison Ford. Anche la scelta di adattare le trame agli eventi attuali si rivela vincente per attirare l’attenzione del pubblico. La prima stagione – l’unica uscita finora – si concentra infatti sui recenti eventi in Siria e Iraq che hanno visto la nascita e l’espansione dell’ISIS. Nello show un misterioso nuovo leader jihadista, Bin Suleiman, si impone come nuovo capo dell’ISIS al fine di realizzare piani di attacco all’Occidente ben più letali e diabolici di quelli visti finora. Non mancano ovviamente gli stereotipi a tratti grossolani, come l’abbondanza di kefiah e l’irrefrenabile istinto di sparare in aria che sembra caratterizzare ogni singolo combattente arabo. Se però comparato con produzioni simili di inizio anni Duemila – in cui il “cattivo” terrorista non poteva che essere un personaggio le cui azioni erano giustificate solo dalla sua follia, mancanza di umanità, e/o una natura intrinsecamente malvagia – questa serie mostra una sorprendente sofisticazione nel rappresentare le dinamiche della radicalizzazione terroristica. Attraverso flashback viene infatti narrata la storia del protagonista negativo, il quale dopo aver perso la famiglia in bombardamenti israeliani in Libano approda in Francia dove cresce in una banlieue sognando il riscatto sociale attraverso gli studi, che non si materializza per la resistenza della società francese ad accettarlo pienamente. Diventa così un piccolo criminale e finisce presto in carcere dove si radicalizza attraverso l’incontro con alcuni predicatori estremisti. Una parabola estremamente realistica, che rispecchia gli ultimi decenni di studi empirici sulla materia, e che dimostra come anni di lotta al terrorismo con alterni successi hanno almeno portato la cultura popolare americana ad interiorizzare un approccio più sofisticato alla radicalizzazione della semplice lotta tra buoni e malvagi. Un realismo forse in parte ancora assente nell’approccio delle società europee, per non parlare di altre aree del mondo come lo stesso Medio Oriente. Notevole, infine, l’implicita critica dell’integrazione degli stranieri in Europa, molto diversa dal modello americano, che effettivamente ha prodotto molti meno radicalizzati “autoctoni” rispetto a paesi come Francia, Germania o Regno Unito (l’Italia è un caso particolare che ISPI ha ampiamente trattato in lavori come questo e questo). A guardare i dati, infatti, si nota come le seconde generazioni di origine musulmana negli Usa abbiano status e reddito eguale o superiore alla media della popolazione americana; una situazione assai diversa alla marginalizzazione di cui soffrono di solito in Europa.

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