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BEIRUT

In psicologia cognitiva esiste una letteratura piuttosto affermata detta “Terror Management Theory”(TMT). È una teoria che cerca di spiegare una delle attività più caratteristiche degli esseri umani, ovvero quella di raccontare, e raccontarsi, storie. Secondo gli adepti della TMT, le storie non sarebbero altro che un espediente cognitivo messo in campo dagli individui per farsi una ragione di un mondo privo di senso apparente. Soprattutto, le storie servirebbero a conferire un’illusione di controllo sulla nostra ineluttabile mortalità, di cui ognuno di noi è consapevole fin dai primi anni di vita. Storie, simboli, grandi e piccole narrazioni non sarebbero quindi nient’altro che una sorta di oppioide cognitivo che ci permette di trovare un controllo illusorio laddove non ne abbiamo alcuno.

Ecco, se in questa teoria c’è qualcosa di vero, e io penso ce ne sia parecchio, allora è in essa che un po’ grottescamente trovo il mio amore per Beirut. Uno di quegli amori tormentati e irrequieti, forse non a caso così tipici della cultura popolare locale. Beirut è quel luogo ogni volta capace di spazzare via ogni illusione di senso che tutti ci costruiamo, e di metterci davanti tutto ciò che di ironico, grottesco, imprevedibile, e irrimediabilmente tragico riusciamo a celare ai nostri occhi per gran parte della nostra vita.

A Beirut ho vissuto un anno scarso, e continuo a tornarci ad ogni occasione che riesco a procurarmi. Quando ci vivevo ero arrivato a odiarla, soprattutto verso la fine, dopo aver vissuto mesi come una macchina costantemente fuori giri, consumando vita ed energia ben oltre quanto sarebbe saggio e ragionevole. Ma nonostante questo seguito a tornarvi, ogni volta con lo stesso trasporto.

So di non essere l’unico e so che ognuno ricerca quali siano le sue personali ragioni per farlo. Io credo di averla trovata nel fatto forse solo a Beirut le costanti tensioni che tengono insieme la mia fragile illusione di realtà e di senso sono nude e crude davanti ai miei occhi, incapaci di nascondersi dietro a quel che resta degli sfilacciati veli ideologici che cercano ancora di dare un qualche tipo di narrazione coerente per tutto ciò che lì osservo succedere. A Beirut il proverbiale arco di Eraclito muta e si contorce sotto i tuoi occhi, incapace di nascondere le continue opposte tensioni che lo sottendono.

Il Libano è quel posto dove la democrazia convive con tante piccole monarchie ed eserciti indipendenti, dove da decenni non esistono ferrovie funzionanti ma dove tuttora esiste (e paga gli stipendi) l’azienda pubblica per il trasporto ferroviario; dove vedi girare TESLA dall’ultimo grido che probabilmente la sera i proprietari caricheranno con elettricità proveniente da un generatore a gasolio, o dove start-up digitali vengono create a pochi chilometri aree che per i criteri UNDP sono rimaste al livello di sviluppo dell’Etiopia degli anni Settanta. Beirut, da qualche giorno, è anche il posto dove un secondo prima c’è una città, stremata da una crisi economica senza apparente soluzione, e secondo dopo ce n’è solo metà, perché l’altra è stata spazzata via da una esplosione insieme a 160 dei suoi abitanti. Non per una guerra, non per un attacco terroristico, non per un terremoto, non per una delle qualsivoglia ragioni, perlopiù orrende, per le quali queste cose succedono e che almeno servono a dare un senso compiuto, per quanto odioso, a ciò che accade. A Beirut nemmeno la catastrofe è più degna di avere senso.

Non mi faccio nessuna illusione che questo pezzo non sia nient’altro che l’ennesima eulogia della città fatta dall’ennesimo europeo che l’ha vissuta e vista dalla comoda bolla del suo privilegio. E non la scrivo certo con la pretesa di spiegare la città per coloro che la vivono da sempre. Anche perché in nessun luogo come a Beirut ho visto convivere così tante narrazioni sovrapposte degli stessi luoghi, così tanti significati diversi appiccicati sugli stessi simboli nella mente delle persone. C’è stata la guerra, certo, che rende certi luoghi memorie di eroismo per alcuni, e memorie di dolore per molti altri; memorie di casa e rifugio per alcuni e di paura e odio per altri. E poi ci sono le guerre degli altri, spesso sovrappostesi a quelle locali, come quella dei palestinesi da mezzo secolo condannati ai margini il più lontani possibili dalla percezione (o lE percezionI) che il Libano ha di sé stesso, nell’attesa sempre più illusoria di tornare a una terra che la maggior parte di loro non saprebbe nemmeno più descrivere. O come quella dei siriani, ritornati in Libano da sfollati molto prima che il brutto ricordo della loro presenza da dominatori fosse sbiadito nella mente dei libanesi. Ma ci sono anche distacchi più recenti, quelli creati dall’ineguaglianza cresciuta a dismisura dopo gli anni Novanta e che ha assunto toni difficili da comprendere (e accettare) agli occhi di un europeo. Che rende i luoghi di una città geograficamente minuscola lontani anni luce l’uno dall’altro, così come le vite di coloro che li abitano (compresa la mia quando ci vivevo).

Beirut è la città dei mille sensi che si annullano a vicenda, lasciando un vuoto caotico che negli anni si è risolto, per la maggior parte dei suoi abitanti, nell’individualismo come unico senso praticabile, proprio perché non bisognoso di essere condiviso con altri esseri umani. Non so perché questo mi ha attirato così tanto per tutto questo tempo. Forse c’è che da italiano tutto questo non mi è mai sembrato davvero “esotico”, appartenente a un universo diverso dal mio. Forse la mia fascinazione per Beirut diviene proprio dal fatto che lì vedo a un altro livello di compimento tutti i vizi (e, in parte, le virtù) della cultura da cui provengo e il pensiero, certo inquietante, che forse sia questo il destino verso cui anche noi scivoliamo lentamente insieme al resto del mondo, in un’era per la quale la privazione di senso collettivo è forse il carattere più dirimente.

Io non lo so cosa aspettarmi da quello che accadrà dopo questa ennesima tragedia e cosa potrà scaturire da tutta quella rabbia accumulata in decenni che si sfoga oggi nelle strade del Libano. Non so se basterà scagliarsi contro la classe politica, milizie armate o interventi esterni veri o presunti. Nella città dei sensi contrapposti questo è ciò che purtroppo è sempre accaduto, anche se fino a poco tempo fa tacite regole fondate su un senso di mutua deterrenza ne avevano reso lo svolgersi più ordinato e apparentemente civile. So solo che a Beirut vorrei tornarci ancora in futuro difficile da definire adesso e, forse, potermi fermare sul suo lungomare e pensare che tutto sommato il fascino distorto che provavo per lei è finalmente cessato.    

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